Me lo scrivo
Oleksandr Hnatenko, S. Real, 2012
Quando G. rientrò a casa dall’ufficio, potevano essere le sei del pomeriggio, trovò il cadavere di una donna nel soggiorno.
Sulle prime ne fu stordito, un formicolio gl’invase il corpo, ebbe l’istinto di urlare, di scappare via.
Poi si fece forza per venire a capo di quel mistero: s’accovacciò sul corpo e l’analizzò.
Non vide sangue né tumefazioni, gli occhi erano serrati, le labbra socchiuse.
“Debbo chiamare la polizia”, disse a fil di voce deglutendo.
Provò a ricordare il numero della polizia, ma senza risultato.
“Amnesia”, pensò. Gli capitava pure col PIN del bancomat.
Eppure era un numero breve, 3 cifre, che sin da piccolo sapeva essere simile alla targa dell’auto di Paperino.
Provò a ricordare almeno quella mentre fissava il viso sereno e scavato del cadavere.
Gli apparve la sagoma bombata rossa coi parafanghi blu, o viceversa, ma quando provò a zoomare sulla targa non ricavò niente: come fosse offuscata da qualche tutore della privacy.
I vuoti di memoria sono così: ti concentri e non ti viene niente, appena te ne scordi i numeri ti ballano davanti.
Non ricordava nemmeno se aveva qualche copia del fumetto a casa. Ma rischiava di essere una pista sbagliata. Metti che Paperino aveva cambiato auto. In fondo era vecchia e di certo poteva aver beneficiato di una permuta o una rottamazione.
Falsa pista, meglio cercare altrove.
“Okay, usiamo le pagine gialle”, pensò.
Le cercò nel ripiano sotto il telefono ma non le trovò.
Poi gli sovvenne che era un po’ che le pagine gialle non le aveva in casa, erano un retaggio della rete telefonica monopolista. Oggi c’era il libero mercato, ed a pensarci erano anni che non aveva nemmeno più il telefono a cornetta, ma solo il cellulare.
“Amnesia”, pensò.
Gli venne un po’ da bestemmiare, ma lì per lì il nome del santo prediletto non gli saltò in mente.
“Niente panico”, s’esortò, “sul cellulare ho i numeri d’emergenza”.
Buttò un’occhiata alla donna morta, come a scusarsi di darle le spalle, e si volse all’uomo morto su cui appendeva la giacca con gesto meccanico appena rientrava. Frugò le tasche ma non trovò il cellulare.
“L’avrò lasciato in macchina”.
Già che c’era s’esercitò a ricordare il suo numero di targa sperando che, come in un domino, lo aiutasse a ricordare la targa di Paperino e finalmente il numero della polizia. Ma s’inceppò sul primo passo.
“Amnesia”, borbottò ancora, aggiungendo un vaffanculo.
Sedò l’ansia, la macchina era parcheggiata lontano, faceva prima a chiedere al vicino del primo piano.
Ma come accidenti si chiamava?
Signor Carlo? O Vincenzo? O forse Dino?
Certo il cognome poteva leggerlo sulla porta, ma chiamarlo per cognome era maledettamente formale. Quello erano anni che lo salutava chiamandolo per nome, “Ciao G.”, “Buongiorno G.”, “Tutt’a posto, G.?”, e lui ricambiava fingendo affabilità, con un “Uè, come va?”, ma omettendo sistematicamente il nome.
“Niente panico”, ribadì.
C’era il verbale dell’ultima assemblea condominiale, con nomi e cognomi di tutti.
L’unico dubbio riguardava poi apostrofarlo col nome di battesimo o con un diminutivo.
Metti che si chiamava Giuseppe, ma tutti lo chiamavano Peppino.
“In quel caso so’ cazzi”, pensò.
Sperò si chiamasse con un nome breve che non dà luogo a diminutivi, tipo Luca.
Rifuggì anche solo il pensiero che potessero chiamarlo Lucariello.
Ripassò dal cadavere e sospirò invidiandone la definitiva pace interiore, mentre lui ancora si sentiva un criceto nella ruota. Le toccò il viso. Non osava rivoltarla, guai a lasciare impronte sul corpo. Tuttavia per come era smunta e livida era certo avesse perso sangue, magari le era appiccicato alla schiena.
“Ma dico, a chi viene in mente di trasportare un cadavere a casa mia?”
Qualcuno che voleva incastrarlo, senz’altro.
Lasciò per un attimo la donna e fece mente locale al verbale dell’assemblea. Dove lo metteva di solito? Scrivania? Dispensa? Credenza? Cassettiera?
“Certo che sono proprio rimbambito”, pensò poi lisciandosi la canizie con lo stesso sconcerto provato poc’anzi quando aveva realizzato che non aveva più una cornetta telefonica.
Il vecchio amministratore lasciava i verbali cartacei, finiti di certo nella monnezza, mentre il nuovo li inviava sulla chat del condominio. Di qui la necessità d’avere il cellulare, che però stava lontano in macchina.
Inspirò profondamente, guardò la morta e per autocommiserazione si fece il segno della croce dicendo “Padre, figlio e spirito santo”.
Nel farlo non era più sicuro di dover usare la mano destra piuttosto che la sinistra.
Le provò entrambe, gli sembrò d’essere ambidestro, e ne trasse una minima leggerezza di spirito, per quanto fuori luogo. Pensò di sperimentare quella nuova attitudine anche nella prossima partita di padel.
Vabbè, pensò che in fondo non era tutta ‘sta grande idea andare dal vicino, non ci avrebbe fatto una bella figura a non ricordare il numero della polizia, e di certo non poteva chiedere quello della targa di Paperino.
Che poi, a ben pensarci, un dubbio più che atroce lo sfiorò.
Vuoi vedere che era la targa dell’auto di Topolino?
Anche lì provo a figurarsela, ma non era tanto dissimile da quella di Paperino, a parte che c’era Minni dentro. Anche in quel caso la targa era bannata, ma probabilmente la macchina era già stata rottamata perché nemmeno Euro 1.
La frustrazione superò il limite di guardia e divenne rabbia. Riprovò col solito sfiatatoio, il nome del santo da bestemmiare, ma niente. Non gli venne nemmeno un suo vice, un santo minore dal calendario di Frate Indovino.
A quel punto si fermò.
Lasciò la salma per un attimo, andò in bagno e s’assise sulla tazza a ripensare a quello strano caso mentre ingaggiava un duello con la propria stitichezza.
Mentre incoraggiava la deiezione solida al canonico tuffo, gli sembrò d’avvertire rumori sordi dal soggiorno e un po’ la pelle delle braccia gli si accapponò.
Lo sfiorò il pensiero che fosse tornato il trafugatore di cadaveri. Che magari si fosse accorto dell’errore e si fosse ripresa la donna morta.
Ammenoché, al contrario, non fosse venuto a portarne un altro.
Al solo pensiero l’indignazione superò la paura, ed un tuffo al cuore coincise con quello organico nel water.
Ma niente niente avesse preso casa sua per una discarica di cadaveri?
Prestò ancora un po’ orecchio, ma non avvertì altri rumori. Si levò allora con cautela, si deterse, e passò dal soggiorno in punta di piedi. Aveva anche pensato allo scopino del cesso come corpo contundente contro il trafugatore, ma l’aveva appena usato e grondava acqua.
Nel soggiorno però ebbe la bella sorpresa: la salma non c’era più!
Dio sia lodato, pensò.
Controllò la porta e non vi trovò segni d’effrazione.
“Avrà usato una chiave universale, per cautela cambierò la serratura”.
Pur immaginando la rottura del fabbro in casa, lo pervase tuttavia un sollievo ed una leggerezza inedita. Non doveva più ricordare quella cazzo di targa di Paperino.
Quando però fece per entrare in cucina, attratto da un insolito odore di caffè, s’arrestò sulla soglia paralizzato dalla scena che vide.
Nel biancore accecante della stanza s’aggirava il cadavere della donna, che non mostrava né di fronte né di schiena alcuna traccia di sangue, sorseggiando per di più un caffè da una tazza, scala 1:20 dell’altra con lo scopino appena abbandonata.
La donna lo osservò come solo i presunti cadaveri sanno fare.
“Ne vuoi anche tu?”, gli fece porgendogli la tazza.
“Io ne ho proprio bisogno, m’ero appoggiata un po’ sul divano e sono sprofondata nel sonno…”
G. rimase a guardarla a bocca aperta.
“A…a…amnesia”, pensò.
“Che c’hai? Pare hai visto un’apparizione”, s’incuriosì quella.
G. ne scandagliò i contorni del viso, ma evitò qualsiasi consultazione all’archivio mentale, memore delle figure di merda con numero della polizia, targa di Paperino, pagine gialle, nome del vicino, verbale dell’assemblea.
“Hai fatto la spesa?”, lo incalzò lei.
“No…direi…”
“E che aspetti? Mi servono pure gli assorbenti, non ti scordare”.
“Me lo scrivo”, fece G.
E mentre il pennino scorreva sul pezzo di carta si chiese se fosse mai possibile annotare i tratti somatici, per esempio di una moglie.
Pensò che il suo nome prima o poi gli sarebbe venuto a mente, o magari l’avrebbe ricavato da un suo monologo, le sembrava una tipa loquace.
Ed a proposito, solo in quel momento gli balzò in mente il nome del santo già cercato invano.
“Hai visto?”, sospirò, “quando meno te lo aspetti”.
Non ne fece niente, lo trascrisse sulla carta dopo “assorbenti”, e lo serbò per una bestemmia di là da venire.
Gero Mannella Copyright 2014