Inediti

Il plastico portiere


William Matthews, Graffiti, unknown

Da piccoli c’è un’età di mezzo tra l’autismo della poppanza e la baldanza ferina della tribù. Quell’età in cui la tivù soggioga ed instilla i germi di un’epica facile, e crea nella mente del virgulto proiezioni in forma di guerrieri, cowboy, e giocatori di pallone. La mia infanzia domestica è stata costellata di partite ad eliminazione diretta, finali di Coppa dei Campioni, trofei da sollevare sulle spalle di ectoplasmi d’occasione, inquietanti pressioni di platee oceaniche, mute o chiocce. Tutti eventi rigorosamente autarchici, da one man show.
Il mio personale Maracana era il soggiorno di casa, le cui sagome nel periplo a ritroso si stagliano ancora distinguibili, sebbene immerse in una stagnante bruma.
Un lato della stanza era occupato da un maestoso divano tappezzato a fiori improbabili, troppo decò per essere veri, i cui braccioli bombati erano l’ideale da avvinghiare nei concitati corpo a corpo, e i cui morbidi cuscini di raso, autentico sollievo antiemorroico, erano pronti ad attutire i rinculi dei tuffi del plastico portiere. Una negretta di gesso seminuda dal gonnellino di pagliericcio e dagli orecchini a cerchio, che sormontava a mo’ di stilita una colonna di marmo che fungeva da palo, affiancava il lato del divano prossimo alla porta; e dal lato opposto di questa faceva da sentinella un austero portaombrelli di ottone che, opportunamente spostato al centro della stanza, costituiva l’insormontabile ultimo baluardo della difesa da dribblare, lo stopper killer che si frapponeva tra me e la gloria.
Sulla parete di fronte gli spalti ululanti, gradinate e tribune di mobilio in noce s’ergevano come una muraglia minacciosa o benevola, a seconda della tifoseria che alloggiavano. Gli ultras erano ben distinguibili: bomboniere in forma di puttini in ceramica, memorie di battesimi fino al terzo grado parentale, angioletti in porcellana freschi di comunione, argentei soldati di Cristo reduci dal buffetto cresimale, ed ovviamente cigni a foggia di sposini. I loro striscioni dai motti salaci erano i cartigli delle bomboniere, in cui s’annunciava il lieto evento, avviluppati ancora nell’organza coi confetti alla mandorla, loro fardello ineluttabile.
I confetti alla mandorla, rosa celesti o bianchi che fossero, erano a stento acclusi al genere dei commestibili, e rimanevano avvinghiati alla bomboniera per tutto il suo ciclo di vita, condividendone i sudari di polvere e le diaspore tra ripiani e cristalliere. Alla fine della parabola c’era l’inevitabile estinzione, scalzata la loro fatale simbiosi dall’avvento di nuovi fastosi cimeli, o da santini e madonne di Lourdes in plastica con acqua benedetta included.
L’unica chance di distacco del malloppo velato dalla bomboniera la determinava la tensione tra le opposte tifoserie che, quando trascendeva i limiti dello sfottò, trasformava i confetti alla mandorla in pericolosi sanpietrini da lanciarsi l’un l’altro all’apice del conflitto. Gli affilati proietti schizzavano così per la stanza e si infrangevano sui tulipani dei parati, o talvolta sul volto azzimato di mia madre, tosto accorsa quale forza pubblica brandendo a mo’ di manganello un cucchiaio di legno odoroso di ragù.
Quanto agli altri confetti, quelli di cioccolato, essi non vissero mai l’ebbrezza del volo. Venivano confiscati ben prima dell’ingresso allo stadio, ed opportunamente presi in custodia dagli enzimi digestivi.
Il tavolo di ciliegio che campeggiava al centro della stanza, eredità di ligneo lignaggio, corredato dall’ultima progenie di tarli di lignaggio coevo, e le sedie che lo circondavano, offrivano tante di quelle gambe per la barriera schierata sulle punizioni, che l’attraversamento di quella selva costava parecchie ripetizioni della battuta, cagionata dal mancato rispetto della distanza regolamentare. In casi estremi l’arbitro imparziale decretava l’espulsione di qualche sedia per recidiva. Il ruolo dell’arbitro fu per lungo tempo ricoperto dalla negretta stilita dagli orecchini a cerchio, almeno fin quando la meschina, improvvidamente crollata in un concitato dribbling per uno scossone alla colonna, non perse l’uso del braccio destro, e la FIFA (mia madre), ispirando nel sottoscritto omonimo sentimento per il nerboruto cucchiaio che roteava per l’aria, non mi diffidò da ulteriori impieghi in quel ruolo. Nel seguito il ruolo di arbitro fu ricoperto da personaggi avventizi, poco carismatici e men che mai statuari (che non a caso fomentavano il lancio di confetti): per lo più anonimi supereroi in plastica sbucati dalle patatine, e nel periodo natalizio il Baldassarre dei re Magi. Per le finali in pompa magna i Magi al completo costituivano la terna arbitrale.

Ma il motore primo di quella pantomima, la fomite unica dei travasi di collera e degli eccessi di euforia, il totem che irradiava luce trasfigurante all’anodino arredo anni sessanta del soggiorno rendendolo il più celebrato degli stadi, l’agente gravitazionale che mi instillava il moto perpetuo e incongruo di un tarantolato, era la più disadorna, inattendibile e miserabile delle palle: un foglio di quaderno appallottolato.
Non so perché per anni quella palla che avrebbero snobbato anche nelle favelas la preferii a sfere più idonee, come una banale palla da ping pong o una di quelle in gomma colorata che trovavi per pochi spiccioli nei caraffoni di vetro fuori ai bar.
Era rugosa, irregolare, si sfaldava ogni pochi lanci e mi costringeva costantemente a ricomporne la compattezza stringendola nel pugno. Eppure la preferivo alle altre.
Forse era la sua caducità, la necessità di accudirla e di rimodellarla, che me la rendeva più vicina di quelle che vivono di vita propria e passano indifferenti di mano in mano. O forse la sua leggerezza, che non faceva danni nell’impatto con le cose, e scongiurava le irruzioni della FIFA ed i volteggi del cucchiaio al ragù. O magari il piacere ribelle, il gesto sovversivo di strappare un foglio dal quaderno di matematica per prenderlo a calci. Sta di fatto che in quel periodo s’annidavano palline di carta un po’ dovunque per casa.
Infatti, se il soggiorno-Maracana era il palcoscenico favorito per le sfide tra nazionali, frequenti erano gli incontri tra club a San Siro (la mia camera), al Santiago Bernabeu (la camera dei miei), o in qualche insidioso campo di provincia (il bagno).
Lo stadio tabù per antonomasia, quello su cui gravava una squalifica del campo pressoché permanente, era senza dubbio la cucina; salvo i casi in cui l’emissario FIFA, riposto lo scettro di legno, scendeva a fare la spesa.
Cosicché il ripetersi di errati traversoni, di colpi di testa stellari e rinvii di difensori alla viva il parroco disseminò di palle di carta i luoghi più inaccessibili della casa.
Sui soli pensili del soggiorno, su cui s’usava stipare fino all’oblìo regalìe intonse (servizi di stoviglie stile impero il cui peso della forchetta causava lo slogamento del pollice al terzo avvolgimento di spaghetti), un giorno mio padre ne trovò una ventina. Quando le tirò giù e me le porse con piglio interrogativo mi bastò un colpo d’occhio per ciascuna di esse per risalire alla finale in cui s’erano immolate.
Dalle pieghe della carta, dallo stato d’usura, dal viluppo di polvere, dal tratto dell’inchiostro e dall’iscrizione che vi si intuiva scaturiva l’immediata agnizione. Soppesavo una ad una le palle polverose e riapparivano ora i lancieri dell’Ajax, ora i merengues del Real, ora i reds del Liverpool.

S’era all’inizio degli anni settanta e la memoria di Italia-Germania 4-3, del bacino dello stadio Azteca di Città del Messico, del bianco e nero di un televisore a valvole col risultato in sovrimpressione che cambiava come le tessere d’un tabellone ferroviario, e i nomi dei marcatori che vi si stampavano tremuli, ignari di scrivere una pagina di storia, d’essere scolpiti come sulla pietra d’una stele, la memoria di quella partita era vivida e fonte d’infinite repliche.
Di quella finale vista e rivista avevo assorbito azioni, esaltazioni, struggimenti: dal goffo tripudio di Müller dopo aver beffato Albertosi e Poletti, a Riva piegato in due dopo il diagonale del terzo gol, a Sepp Mayer che sbatte i pugni a terra appena infilato da Rivera.
Il 4-1 col Brasile era stato rimosso in fretta: lo sciacquone dei ricordi infausti era stato azionato, e lo scroscio aveva trascinato con sé anche l’effimera euforia del gol di Bonimba.
La palla di carta in quei giorni volteggiò come non mai. L’attore principale di volta in volta cambiava e con quello il gesto che accendeva gli animi del Maracana, delle bomboniere ultras che si sporgevano dai pensili, e della negretta invalida dalla tribuna dei vip.
Se era Riva la mano alzava un lob (quasi una rifinitura di Rivera) che andava a cadere sul piede sinistro già carico per il bolide che avrebbe steso come birilli i difensori. Se era Domenghini le gambe delle sedie erano disseminate in modo che, palla al piede, uno slalom vertiginoso con finte e tranelli avrebbe disorientato i difensori impietriti, ed aperto la strada alla porta sguarnita. Se era Albertosi la mano destra calibrava un pallonetto all’indietro, ben sopra la sua testa, per indurlo a stendersi in un plastico tuffo e sventare la minaccia tra il boato di un manipolo di soldatini di piombo (i tifosi in trasferta).

Ogni tanto le palle, pur non finendo in posti inaccessibili, erano immolate al Leviatano del calcio indoor.
Il rumore sospetto prodotto dal tracollo di una sedia o dall’impatto di una tibia sul portaombrelli d’ottone richiamava l’attenzione della FIFA, che accorreva e requisiva il pallone, probabilmente troppo sgonfio a norma di regolamento.
L’afrore della pugna allora si stemperava: De Sisti, Facchetti e tutti gli altri si guatavano l’un l’altro attoniti, smarriti come degli astronauti appena sbarcati sul suolo lunare.
“E mo’?”, mormoravano a mezza voce, mentre la FIFA, brandendo il ligneo simbolo dell’autorità vessatoria, argomentava a sostegno del suo intervento censorio.
Quando però questa s’allontanava tra le bordate di fischi infratimpanici di soldatini e puttini, lo sponsor ufficiale del torneo (il quaderno a quadretti) subito elargiva l’ennesima palla frusciante, nuova di zecca.

Poi sopraggiunse la grande innovazione.
Un provvidenziale riassetto del soggiorno con spostamento delle opprimenti poltrone dai braccioli a torciglione, consentì al Maracana di fregiarsi della porta ideale, simmetrica e perfetta per i tuffi di Albertosi.
Il vano squadrato di accesso al balcone, rientrato di un mezzo metro rispetto alla parete, avendo per rete il ligneo telaio della porta dai pannelli di vetro, era il traguardo ideale di diagonali e pallonetti, nonché il loculo lussuoso del plastico portiere. La tenda di mussolina che attraversava la linea di porta era solo un impaccio, ed andava tenuta aperta. Peccato: all’interno del vano, più prossima al vetro, sarebbe stata la rete ideale su cui frenare la corsa della palla. Con quella nuova porta, in luogo dei pali erratici, le partite divennero più sapide, i replay più precisi, i commenti più acuti, le azioni più esaltanti.
Finalmente potevo tirare all’incrocio dei pali, salvare il risultato sulla linea bianca, calciare un angolo a rientrare, tuffarmi di lato per tutta la mia altezza senza incocciare in ostacoli.
In quel periodo provai una voluttà particolare a fare il portiere, a strisciare e ruzzolare sul pavimento di marmo, cercando di carpire la palla in ogni angolo della nuova porta.
Non ho una memoria precisa di quanto durò quella fase. Ricordo però l’episodio che segnò la fine dell’epopea indoor e del one man show.

Il Maracana ospitava la rivincita di Italia-Brasile, coi nostri a fugare i fantasmi dell’infausta finale e carichi al punto giusto per il solenne riscatto.
Nonostante la tensione in campo la partita era stata corretta e spettacolare, e più volte aveva acceso l’incandescente magma umano stipato col suo incessante tambureggiare in ogni angolo delle tribune, sempre più in alto, fin quasi alle posate stile impero.
All’interno della sfida spiccava il duello tra la perfida parabola ad effetto di Pelé e il plastico colpo di reni di Ricky Albertosi. Io ero quest’ultimo.
Dopo infiniti capovolgimenti di fronte ed una vagonata di gol, che aveva essiccato le corde vocali del gorgheggiante cronista brasiliano, la nostra nazionale godeva di un vantaggio risicato.
C’era da rintuzzare le ultime sfuriate dei carioca prima del tripudio finale: in particolare dovevo scongiurare gli effetti nefasti di una punizione in prima di O’Rey sulla quale ben poco avrebbe potuto la barriera di sedie. Albertosi questo lo sapeva bene, e con lui gli sparuti soldatini, i puttini e la negretta che osservavano col fiato sospeso ostentando il drappo tricolore.
Quando l’arbitro fischiò la mano destra levò il più alto, apparentemente irresistibile, dei pallonetti. Il portiere osservò lo sferoide rugoso e irregolare roteare verso il soffitto, e al culmine della parabola discendere e puntare verso la porta come un meteorite che annuncia l’armageddon.
Gli occhi fissi sulla minaccia, stimò freddo la traiettoria. Difficile ma non impossibile, pensò.
E nel mentre retrocesse di un paio di passi, fino al limitare della linea di porta.
Poi toccò a lui, la palla era lì. Con un colpo di reni si slanciò all’indietro protendendo le braccia per quanto poté.

L’impatto della testa nella lastra di vetro, i frammenti che schizzavano in ogni dove, il bruciore delle schegge conficcate nella fronte e il calore del sangue che di lì sortiva rendendomi un piccolo crocifisso furono l’infausto complemento al senso di disfatta, alla consapevolezza d’essere stato battuto dalla velenosa parabola di Pelé.
In quei pochi istanti potei essere nolente spettatore, sdraiato tra i cocci aguzzi, della scissione della mia parte emotiva da quella razionale, anche se non saprei attribuire all’una o all’altra il corso dei miei pensieri.
Da una parte il cogente bruciore alle tempie, la percezione del delta di un fiume caldo in volto, e l’istanza repressa di gridare e piangere; dall’altra la realizzazione dell’ineluttabilità dei tempi supplementari, con Albertosi sostituito per infortunio.

Anzi no! Un lampo s’accompagnò alle insopportabili fitte di dolore: il portiere era stato colpito dalla bottiglietta di un teppista, un tifoso avversario. E dunque partita sospesa e due a zero a tavolino.
Ebbi appena il tempo di rallegrarmi di questa delibera FIFA, io giovane Dio immolato al pallone, quando avvertii l’inquietante scalpicciare del suo principale emissario che si precipitava in soggiorno.
Per me una sola urgenza: simulare l’incidente, il giramento di testa.
E soprattutto fare sparire la palla di carta!

Rivoltato sulla pancia, impedito in gesti azzardati dal tappeto di vetro, distesi per quanto potei il braccio sinistro articolando la mano per afferrare.
Il capo d’accusa era lì, in bella evidenza: dovevo prenderlo e infilarlo in tasca.
La mano però s’agitò nel vuoto come in preda allo spasmo di un moribondo.
Proteso come Adamo nel Giudizio Universale di Michelangelo, non verso l’indice divino ma verso il viluppo sbrindellato di un foglio a quadretti, non riuscii ad agguantarlo.
Proprio come Albertosi e Poletti, mi sovvenne, su quel tocco innocuo di Müller: il 2-1 della Germania. Il rimbalzo lento della palla è alla nostra portata. Basta sporgersi un tanto. Però il tuo difensore, ancora freddo, non intercetta la parabola ma la accompagna. Tu questo non te l’aspettavi e vai in affanno. La palla tranquilla diventa di colpo inquietante, ma è ancora lì, puoi prenderla. Non fosse che vi intralciate l’un l’altro.
Ché in quei pochi istanti basterebbe chiamarla: “Mia! Mia!”
E invece la foga vi spinge entrambi agli stessi movimenti, finite uno sull’altro; e alla fine non ti resta nemmeno un braccio libero per scacciarla, quella maledetta palla.
Ti rimane solo da guardarla lì, oltre la linea, ripercorrere gli ultimi istanti, e chiederti come sia stato possibile, dove hai sbagliato.

Quel senso di straniante impotenza lo provai per la prima volta quel giorno, disteso sui vetri del soggiorno, la palla a un soffio da me e tuttavia lontana.
Mia madre entrò in stanza ed io rassegnato preavvertii l’impatto del suo scettro legnoso sulle terga. Chiusi gli occhi per qualche secondo, compreso dal solo bruciore alle tempie.
Cosa mi avrebbe raggiunto prima? Le urla stridule i miei timpani o le percosse la mia schiena?
Non avvertii niente per dei secondi che dovettero sembrarmi infiniti. Poi mi girai e apersi gli occhi.
La FIFA in lacrime si chinò, mi abbracciò, mi asciugò il sangue dalla fronte, rimosse le scaglie di vetro conficcate nella pelle.
In quel momento ebbi la certezza che quella era l’ultima volta al Maracana.
Nessun appello. Vittoria a tavolino e squalifica permanente del campo.

Le palle di carta scomparvero da casa, e la tenda si richiuse sul vano balcone.
Il vetraio venne e sostituì la lastra rotta fissandola per bene con lo stucco, con me che lo osservavo in silenzio.
A fine lavoro posò lo sguardo sulla fasciatura che mi cingeva la fronte e sorrise sfoderando una dentatura irregolare.
“Pizzaballa o Zoff?”, mi chiese.
La FIFA aveva parlato, pensai. Accidenti a lei.
“Albertosi”, sillabai abbassando lo sguardo.
“Mio figlio invece Pizzaballa”, precisò.
“Cinque punti di sutura proprio qui”, aggiunse poggiando il dito sul mio sopracciglio destro. “Ora gioca solo fuori, in strada”.
Quando di lì a poco fui annesso anch’io alle tribù all’aperto, suo figlio me lo ritrovai compagno di partite per strada, dove le porte erano i vuoti tra le macchine parcheggiate. Sulle nostre fronti le stimmate visibili delle epiche indoor ci predisponevano al ruolo di capitani coraggiosi, di coloro che decidevano chi giocava e chi stava fuori.

La fine del mio Maracana, a distanza di decenni, è rimasta impressa in modo indelebile all’interno e all’esterno della mia calotta cranica.
E quella sensazione di impotenza nel guardare una palla beffarda che varca la linea di porta con me sdraiato sui vetri l’ho provata altre volte ancora nella mia vita da adulto. La sola differenza è aver imparato a rimuovere le scaglie di vetro dalle ferite anche quando la FIFA non c’era più.

Gero Mannella Copyright 2006


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